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Trutzhain (città Lager)
La cittadina tedesca di Trutzhain è l'unico esempio di lager nazista riconvertito in cittadina civile nell'immediato dopoguerra e tuttora abitato dai figli dei profughi tedeschi espulsi dopo il 1945 dalla Slesia, Pomerania e Sudeti. Il lager ospitò fino a 50 mila prigionieri, in prevalenza francesi, che ricevevano il trattamento migliore per l'interessamento del governo filonazista di Vichy, ma anche molti italiani, olandesi, serbi e migliaia di russi, considerati "sottouomini" e perciò maltrattati. Trutzhain ha mantenuto le stesse strutture del campo di concentramento: ma mentre nel lager vivevano 800 prigionieri per baracca, oggi la popolazione complessiva della cittadina non supera le 850 persone.

Così la vita continua nella prigione nazista

Là dov' era la baracca dei prigionieri francesi, oggi c' è una famiglia di ex rifugiati polacchi. E nel recinto dove stavano confinati i detenuti sovietici - considerati Untermenschen, "sottouomini" - ora c' è l' asilo infantile. Il corpo di guardia tedesco è diventato la direzione del museo. E davanti a quella che era la prigione, adesso c' è la stazione dei pompieri. La sala di lettura si è trasformata in birreria. Benvenuti a Trutzhain, paesino dell' Assia, il Land tedesco dove il cancelliere Angela Merkel vuol ricostituire i campi di rieducazione per i criminali stranieri. Trutzhain non è contemplato dal piano proposto la scorsa settimana dal governatore della regione. E' piuttosto un esperimento riuscito di "riutilizzazione attiva - sostengono le autoritè - di un luogo del passato". Ma è anche l' unico Lager al mondo tuttora abitato, il famigerato Stalag IX A di Ziegenhein, come un tempo si chiamava la cittadina, al cui nome i pochi sopravvissuti ultraottantenni pensano ancora con tremore. Qui tutto è rimasto come nel 1939, quando il campo di prigionia fu tirato su dopo l' invasione della Polonia da parte della Germania nazista. Persino la planimetria della cittadina, di fisionomia rigorosamente assiale, è rimasta la stessa. Una via lunga e diritta, e tutto attorno, con scansione meticolosa, le baracche. Ciascuna misura 60 metri per 12. Sono le case abitate oggi dai figli degli ex profughi della Slesia, della Pomerania, i sudeti, le popolazioni espulse in massa dai territori orientali dopo la sconfitta tedesca. Alcuni edifici sono stati rinnovati, ingentiliti all' esterno da siepi e all' interno da mobili e tendine colorate. Altri sembrano rimasti fermi nel tempo, tuguri cadenti, stretti e lunghi, infossati nella neve, e dai cui camini sale un fumo lento che pare impregnato dei ricordi del passato. Affacciandosi sulla Haupstrasse, la via principale che sotto la guerra fungeva da spiazzo per l' appello, dove i detenuti malvestiti rimanevano in piedi anche per ore a 10 gradi sotto zero, sembra di rivivere di colpo le urla dei kapò e il terrore dei disperati. L' atmosfera è spettrale anche adesso che è pieno giorno. Per strada non c' è nessuno, tranne qualche raro passante. Solo gelo e locali chiusi. 2Problemi a vivere qui - dice un uomo anziano, ex profugo della Prussia orientale - li abbiamo avuti all' inizio. Ci sentivamo in colpa. Questo posto, dopo la guerra, è stato anche un lazzaretto. La notte i fantasmi ci perseguitavano nel sonno. Ma poi il tempo scorre, e pian piano tutto cambia. Nuove generazioni arrivano e per loro vivere qui o altrove fa lo stesso". Trutzhain oggi funge da campo di prova. "Adesso anche altri ex Lager ci chiedono come funzionano le cose da noi - spiega con grande cortesia e dovizia di particolari il professor Bodo Guthmueller, che insegna alla vicina Università di Marburg ed è uno dei custodi della memoria nel museo locale - pure loro vogliono far tornare quei luoghi città vive e non più luoghi fantasma o semplicemente del ricordo come sono ora". I residenti hanno potuto acquistare le baracche. I lunghi e angusti parallelepipedi sono stati divisi in più famiglie. I letti a castello dove i deportati dormivano a due a due, in ottocento per alloggio, sono stati sgombrati. I muri delle finestre da cui i morti venivano gettati a braccia, nudi per riciclare vestiti considerati preziosi, riverniciati. Ma fuori i negozi sono pochi e sparuti. Una tintoria, una rivendita di giornali, una piccola banca. A un certo punto nei dintorni avevano impiantato anche un' azienda chimica, la "Josef Petters", una fabbrica di saponi, polveri da lavaggio, creme da scarpe e, come diceva la pubblicità, "tutto quanto serve alla pulizia dei piedi". Ai lati, le strade che tagliano la via principale arrivano fin dove un tempo c' erano i luoghi più tetri: le latrine, le celle, le camere di disinfestazione, l' obitorio, i due cimiteri. Giù fino all' ultimo lembo del campo, dove erano confinati i russi, i serbi e qualche volta anche gli italiani. "Meglio di tutti stavano i francesi sottoposti al governo di Vichy istituito dai tedeschi - dice Guthmueller - invece gli italiani, i militari internati in Germania dopo l' 8 settembre, erano considerati dei traditori. Ma il peggio toccava ai russi, i nemici comunisti, trattati come bestie. Costretti ai lavori forzati, il loro compito era quello di spaccare pietre. Appena sgarravano, o si avvicinavano alle recinzioni, venivano uccisi sul posto, senza appello". Al numero 23 della Haupstrasse c' è la baracca dove un tempo fu internato Francois Mitterrand, ritratto nelle linde stanze dell' attuale museo in una foto che lo mostra accanto ai compagni di prigionia e immortalato, già allora, in una caricatura fatta sul giornale del campo, il Lagerzeitung, con una foglia sui capelli, come un imperatore. Il futuro presidente francese rimase qui sei mesi, dall' autunno del 1940 al marzo seguente. I suoi connazionali costruirono nel Lager anche una cappella, ribattezzata Notre Dame de France. Oggi non esiste più. La nuova chiesa sorge sul lato opposto. I cimiteri stanno nel bosco, a centinaia di metri di distanza. C' è un monumento in prossimità delle fosse comuni, cui anche gli italiani non scamparono. Il libro dei morti ricorda i loro nomi: "Guido Scopone, Mario Trentini...". Sono centinaia. La data, il numero di matricola posto sulla placchetta di alluminio (assegnata a ciascun arrivato alla stazione di Ziegenhaim Nord e costretto a marciare a piedi per 5 chilometri dopo giorni di viaggio infernale sui treni ferrati), la causa del decesso. I loro resti furono riesumati alla meglio nel 1957, e rispediti in Italia. Oggi a Trutzhain vivono 850 anime. Un "paradiso", se si pensa che in ottocento vivevano già insieme in una sola baracca. Dei 35.000 prigionieri registrati nel 1941, ben 32.000 erano francesi. Poi giunsero olandesi, belgi, serbi, italiani e americani. Migliaia di russi, arrivati nel novembre 1941, furono segregati nel settore separato. Nel 1944 i reclusi salirono a 50.000. Gran parte pativa i lavori forzati in uno dei 2000 kommando del distretto militare IX, soprattutto nelle fabbriche di armamenti della città di Kassel, nelle fabbriche di munizioni di Stadtallendorf e nei lavori agricoli. Dopo la liberazione furono internati qui persino i soldati tedeschi, le SS, e i membri del partito nazista. Poi Ziegenhain divenne campo di transito per gli ebrei dell' Europa orientale in attesa di emigrare. Nel 1948, infine, nelle baracche si insediarono i profughi fuggiti dalla Germania orientale, che diedero vita ad una nuova comunità: Trutzhain. Dei tanti campi per prigionieri di guerra costruiti nel territorio del Reich, questo, grande 47 ettari, è forse il meglio conservato. Dal 1985 è posto sotto vincolo storico. Il piccolo museo, un gioiello di ordine, conserva ancora gli oggetti costruiti dai prigionieri: cavalli di legno, piccoli aerei, giochi di scacchi. Sulla porta di quella che un tempo era una cella è restata una scritta in francese, lasciata da un detenuto nei lunghi giorni di punizione: «Vorrei solo una buona cena - scriveva l' ignoto carcerato - e un bicchiere di vino rosso». Ma nemmeno i custodi erano a conoscenza di una frase in italiano, messa di traverso in alto a destra, intagliata a stento nel legno, eppure ancora visibile. E' composta su più righe, come una piccola poesia, rimasta evidentemente interrotta. Poco più di un graffio, ma da vicino molto chiaro. Dice: "Italia bella/ mamma cara/ quando Vi rivedrò/ V (...)".
Marco Ansaldo, "Repubblica" - 08 Gennaio 2008