"Auschwitz"
Francesco Guccini
Son morto ch'ero bambino
son morto con altri cento
passato per un camino
e ora sono nel vento
Ad Auschwitz c'era la neve
il fumo saliva lento
nei campi tante persone
che ora sono nel vento
Nei campi tante persone
ma un solo grande silenzio
che strano, non ho imparato
a sorridere qui nel vento.
Io chiedo come può un uomo
uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni
in polvere qui nel vento.
Ancora tuona il cannone
ancora non è contenta
di sangue la bestia umana
e ancora ci porta il vento.
Io chiedo quando sarà
che un uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà .
Auschwitz è indubbiamente una delle più celebri canzoni di Guccini, simbolo della sua partecipazione ai drammi umani e del suo intendere la musica non solo come diletto, ma anche come strumento di denuncia. Egli prende in esame il tema dell'olocausto, ma la seconda parte della canzone trascende tale contesto per abbracciare una più estesa riflessione sulla ferinità umana.
La prima strofa presenta la situazione in termini molto schematici: il narratore è un personaggio morto da bambino in una condizione strana; "passato per il camino". L'insistenza sul termine morto in apertura dei primi due versi crea l'atmosfera cupa e nostalgica che accompagna tutto il brano. Da notare è la durezza di quel "con altri cento" che evidenzia l'impersonalità del massacro, sottolineandone allo stesso tempo la dimensione. La prima strofa si chiude poi con la presentazione della situazione attuale: il narratore si trova nel vento.
La seconda strofa, invece, tratteggia la scenografia del dramma ponendo subito in rilievo un nome terribile, evocatore di sofferenza e paura, Auschwitz: l'inverno, il freddo e la neve, che potrebbe essere la gioia di ogni bambino, ma non di colui che si trova lì a morire; c'è poi l'ambiguità del fumo e del camino, che ricordano scene di tranquillità domestica, ma sono qui ben altri segni. La terribile fine è solo accennata, con gusto per così dire classico, senza insistenza su macabri particolari, ma, semplicemente, con l'immagine di un fumo che sale e la presenza di persone che scompaiono, però , per ritrovarsi nel vento.
La terza strofa funge da collegamento tra le due parti del pezzo opponendo alla massa il suo silenzio. L'antitesi crea un efficace sensazione di vuoto, di freddo e morte: questi uomini, ma sono ancora uomini? Non osano più parlare, sono spogliati della propria dignità e individualità, sono tra quei cento o lo saranno presto. Il tempo non cancella quei ricordi nel bimbo morto, egli non riesce a sorridere e si chiede invece, ingenuamente e forse infantilmente, il perchè di quelle stragi. E' questo il momento il cui la prospettiva si amplia e si universalizza quell'esperienza di morte. Guccini sembra pessimista, non ha fiducia nell'uomo e nella sua perfettibilità, lo coglie solo nel suo atto crudele: fantastica intuizione quella di porre alla fine di due versi consecutivi i termini uomo e fratello legati dal crudo realismo del verbo uccidere. Al bimbo, e indubbiamente la scelta come narratore del simbolo dell'innocenza e della purezza non è casuale, sembra assurdo che tutto questo sia potuto accadere, ma è costretto a costatare l'evidenza del fatto: "siamo a milioni/in polvere qui nel vento". Ancora un numero enorme, come il cento iniziale, rende l'idea dell'ampiezza del fenomeno esasperandone la gratuità.
La penultima strofa sembra un grido, un grido di rabbia impotente e disperato, la cui forza è ottenuta con sapienti scelte lessicali: il cannone tuona, terribile segno di morte, e il sangue scorre ininterrotto, per culminare con lo stridente contrasto tra questo sangue, l'aggettivo contenta e la connotazione di bestia umana assegnata a tutta l'umanità. Del resto l'impersonalità del termine uomo, usato due volte, sottolinea già da sola come le accuse e le domande siano rivolte all'umanità intera, tutta ugualmente colpevole se non dell'olocausto, di altri innumerevoli assassinii.
Tuttavia Guccini non se la sente di chiudere così, vuole lasciare un varco, una via di scampo all'uomo, sperare che si possa ancora redimere: ecco il significato dell'uso del futuro nell'ultima strofa che si apre ancora con un "Io chiedo" che questa volta non è tanto una domanda o un'accusa quanto piuttosto una preghiera, una speranza che vuole a tutti i costi uscire e realizzarsi e che è tutta contenuta in quel verso "a vivere senza ammazzare", così semplice eppure tanto intenso e diretto.
Non si può ignorare nell'analisi di questo pezzo la presenza del vento, vero elemento costante nella chiusura di ciascuna strofa. Il vento che sembra leggero e spensierato è in realtà greve del peso di tutti quei morti, è un vento irrequieto che sembra schiacciare l'uomo gettandogli addosso le sue colpe, accusandolo con l'innocente, ma per questo più dura, voce di un bambino. In tutte le strofe esso è accompagnato da qui, ancora, adesso, a sottolineare come si stia parlando di qualcosa di presente e attuale su cui è necessario riflettere. Pensare, però, non basta, bisogna, è questo il significato delle ultime strofe, agire e cambiare, solo così "il vento si poserà".